John Carter
John Carter è un veterano della guerra civile viene trasferito su Marte, dove scopre un pianeta diverso, lussereggiante e selvaggio allo stesso tempo. Gli abitanti sono giganteschi barbari verdi. Si ritroverà prigioniero di queste creature, ma riuscirà a fuggire, solo per incotrare la Principessa Dejah Thoris che è alla disperata ricerca di un salvatore.
Ci sono voluti settantanove anni per realizzarlo, ma finalmente “John Carter” È qui. La creatura di Edgar Rice Burroughs rivive oggi sul grande schermo a cento anni esatti dalla pubblicazione del romanzo “Sotto le lune di Marte”, e in questo secolo sembra non essere invecchiato di un secondo. Anzi.
Era il 1931 quando Robert Clampett, regista dei “Looney Toones”, propose a Burroughs di trasporre le avventure di John Carter di Marte in un film d'animazione. Il progetto È passato attraverso una serie di iterazioni – Robert Rodriguez, Jon Favreau e John McTiernan arrivarono molto vicini a realizzarlo, quest'ultimo con Tom Cruise nel ruolo principale – ma vedendo l'esordio al live action del regista Pixar Andrew Stanton (“Wall-E”), appare evidente che prima di oggi non si sarebbe potuto fare.
Solo negli ultimi dieci anni, la tecnologia del performance capture ha
raggiunto livelli soddisfacenti per tentare l'impresa, e solo negli
ultimi tre o quattro È giunta al grado di perfezione tecnica visto in “Avatar” e “L'alba del pianeta delle scimmie”. “John Carter” non mira altrettanto in alto, anzi in un certo senso coltiva il look cartoonesco dei Thark, i marziani verdi a quattro braccia che affiancano Taylor Kitsch/John Carter nelle avventure del film. Ma, nonostante ciÒ, i Thark sono esseri viventi che respirano, odiano, amano e lottano. Burroughs ne sarebbe felice.
CosÌ come sarebbe felice di sapere che questo “John Carter” È un film riuscito: divertente, esaltante, emozionante, un'avventura all'antica condita con effetti speciali all'avanguardia.
Tra battaglie all'arma bianca, intrighi di palazzo, principesse
guerriere e cospirazioni interplanetarie, Stanton riesce nell'impresa di
donare spessore a un personaggio originariamente piatto (come comandava
la narrativa pulp) senza snaturarlo, e ad evitare il pericolo
principale: quello di far credere agli spettatori che non hanno mai
letto i romanzi di trovarsi di fronte a una copia, quando in realtÀ si
tratta del capostipite di film come “Guerre stellari” e “Avatar”. Se il buon giorno si vede dal mattino, la carriera live action di Andrew Stanton promette grandi cose.
di Marco Triolo